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Jörg Garms |
Piranesi da Venezia
a Roma
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Abstract |
Der Vortrag soll eine
Zusammenschau und teilweise Neugewichtung der zahlreichen Einzelthemen
bieten, die in der umfangreichen Literatur (samt noch unveröffentlichten
Kongress-Beiträgen) zur Frage erarbeitet wurden, welche venezianischen
Voraussetzungen im Werk des zum Verherrlicher seiner zweiten Heimat
- Roms - gewordenen 'architectus venetus' - wie er sich zeitlebens
nannte - wirksam blieben. Es geht dabei um Biographisches, Künstlerisches
und Geistesgeschichtliches, um Techniken, Gattungen und Motive, um
Methoden, Sichtweisen und bildliche Vorstellungen; nebst Lehre und
Einflüssen älterer und zeitgenössischer venezianischer
Kunst werden parallele Verläufe in den beiden Städten, Annäherungen
und neuerliche Entfernung des Künstlers im Verhältnis zum
Erbe Venedigs diskutiert. Einzelpunkte betreffen seine Ausbildung,
den Leitbegriff der 'magnificenza', klassische und antiklassische
Elemente seiner Kunst, das Kompositionsprinzip des Kandelabers etc. |
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La rete
veneziana del Piranesi |
<1>
'Il Piranesi tra Venezia e Roma' era il titolo di una relazione tenuta
dall’allora titolare dell’insegnamento di storia dell’arte
all’Accademia di Venezia, Elena Bassi, in un convegno romano
del 1975. 'Piranesi tra Venezia e l’Europa' era, invece, quello
del convegno organizzato dalla Fondazione Cini, nel 1978, [1]
in occasione del bicentenario della morte dell’artista. Il primo
titolo vuole indicare i due termini del percorso biografico del Piranesi,
mentre il secondo il suo destino finale e la sua apoteosi. Io ho scelto
'Piranesi da Venezia a Roma', perché dopo Michelangelo e Raffaello,
Bernini e Borromini, nessun altro artista si è immedesimato
in tal misura con Roma, ne ha ricevuto tanto e, come il nostro, ha
dato tanto all’Urbe. Il suo diretto concorrente Vasi era siciliano
e tra i maggiori divulgatori dell’immagine di Roma prima di
lui vi erano il piacentino Panini, l’olandese van Wittel, il
comasco Falda, il fiammingo Cruyl, Dupérac e Lafréry,
il primo proveniente da Parigi ed il secondo dalla Franca Contea.
Un vero romano non avrebbe potuto identificarsi con ugual fervore
con la Città Eterna e celebrarne così egregiamente le
'magnificenze'. |
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<2>
Nel mese di aprile del 2001 si sono tenute a Roma due giornate di
studio dedicate alle 'Nuove ricerche sul Piranesi' e, con grande sorpresa
dei convenuti, erano veramente piene di novità. Ormai le pubblicazioni
su Piranesi non si contano più e la marea non accenna a diminuire.
In seguito cercherò di tracciare un quadro riassuntivo di ciò
che si sa o si ipotizza, ma, se volessi darne le ragioni bibliografiche,
risulterebbe soltanto un’indigesta lista di nomi, per cui spero
nel perdono di tutti se mi limito a poche citazioni attinenti a punti
precisi. Sia, quindi, sufficiente l’ammissione che di mio c’è
poco e che si tratta più che altro di un completare, un allargare
ed un ripensare argomenti già discussi. Soprattutto ho intenzione
di dare rilievo ai probabili precedenti veneti che potrebbero aver
influito sull’avventura romana dell’acquafortista –
architetto veneziano – come continuava a definirsi. Certamente
queste radici patrie – insegnamenti, ricordi e immagini, abitudini
e attitudini - erano, spesso, di natura diversa dalle soverchianti
esperienze romane, nelle quali – penso – confluiscano.
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<3>
Sebbene continuino ad emergere sempre nuovi dettagli biografici –
i più importanti, quelli relativi ai due ritorni in patria
dell’artista [2] nel 1978
e, durante il recente convegno romano, altri che precisano i suoi
rapporti con il Vasi ed il Nolli [3]
– dipendiamo per la ricostruzione degli anni formativi del Nostro
ancora da due vite settecentesche, quella più breve ed avversa
del Bianconi del 1779 e quella più lunga e simpatetica di Legrand
del 1799. [4] Accanto
a queste due biografie sono per noi fonte di informazioni il riassunto
delle esperienze ed aspirazioni, che l’artista stesso premette
in veste di lettera dedicatoria, alla sua prima opera, 'Prima Parte
di Architetture e Prospettive', pubblicata nel 1743, e le poche notizie
di Temanza nello 'Zibaldone'. [5]
Per meglio circoscrivere il campo delle sue esperienze e frequentazioni
mi pare assai utile estrarre dalla due vite una lista di nomi. Questi
sono per quanto riguarda Venezia il padre capomastro scalpellino Anzolo
ed il fratello certosino Angelo, e fra gli architetti lo zio Matteo
Lucchesi, Scalfarotto e Temanza e, naturalmente, Palladio e fra i
pittori Tiziano, Tintoretto ed Veronese, Piazzetta e Tiepolo, Canaletto
e l’incisore Giuseppe Wagner. Tra i nomi romani inizio con i
connazionali, lo scultore Corradini e l’incisore Polanzani,
seguono i giovani 'pensionnaires' dell’Accademia di Francia
come gli intimi amici Vien e Clérisseau ma anche Vernet, Pecheux,
Challes, Petitot, Pajou e Doyen per poi continuare con il Caravaggio,
il Panini ed il Servandoni, lo Juvarra, il Salvi ed il Vanvitelli,
il capomastro Giobbe, ed, infine, terminare con il Vasi ed il Nolli
e con gli antiquari Bottari e Contucci. |
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<4>
Assai più complesso è la posizione degli scenografi,
perché l’apprendistato a Bologna sotto Ferdinando Galli
Bibiena pare assai dubbio ed i fratelli Valeriani sono citati dal
Legrand per Venezia e dal Bianconi per Roma. In questo caso dobbiamo
dar ragione al Bianconi perché i fratelli scenografi lavorarono
per i teatri veneziani dal 1723 al 1731 ed, in seguito, andarono a
Torino e poi, di qui, Giuseppe, a Roma nel 1739, dove fregiandosi
del titolo di pittore del cardinal Albani e dell’Elettore di
Baviera, rimase, probabilmente fino alla partenza per la Russia nel
1742. Rimangono, infine, i nomi dei pittori e degli acquafortisti
le cui opere poteva aver visto nell’una e nell’altra città:
Guercino e Rembrandt, La Bella, Silvestre e Castiglione, ed anche
Luca Giordano ammirato durante un viaggio a Napoli. |
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<5>
Ricostruendo la rete veneziana – perché proprio di questo
si tratta – in quanto si sono potuti stabilire contatti tra
tutti i vivi soprannominati – si nota la mancanza di un incisore
che, come probabilissimo, avesse insegnato al giovane artista, prima
che appena ventenne partisse per Roma nel 1740, i primi passi delle
sua arte; a tal proposito si è fatto il nome di Carlo Zucchi.
[6] Anche perché
dei tre testimoni che nel 1752 depongono a Venezia in favore della
libertà del Piranesi da vincoli matrimoniali, l’incisore
Giuseppe Wagner dichiara di averlo conosciuto solo nel 1745 (del resto
era arrivato a Venezia non prima del 1739) e gli altri due sono un
pittore minore, Pietro Rosselli, e uno scultore, Gio. M. Morlaiter,
che dichiara: "Conobbi il suddetto da putello sino al 1737 (…)
e lo conobbi per l’aderenza al mio impiego”. [7] |
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<6>
Se riuniamo tutti questi elementi, ne ricaviamo un quadro molto sorprendente:
il giovane Piranesi, oltre all’architettura e alle scienze collegate
col Magistrato alle Acque, alla scenografia e quindi alle arti prospettiche,
si sarebbe occupato non solo dell’incisione ma, anche, della
pittura e perfino della scultura. Possiamo escludere per i pochi anni
a disposizione un percorso di studi regolari in una di queste discipline.
Questo mi sembra molto importante e lo pone al di fuori della regola:
il fatto che l’artista sia rimasto ad uno stadio potenziale,
senza nessun apprendistato compiuto, con tante vie possibili e nessuna
tracciata. |
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<7>
Apro due parentesi: la prima, i numerosi e non comuni disegni di figura
(sui quali insiste con orrore il Bianconi) non sono un prodotto secondario
dovuto alla necessità di animare rovine ed architettura, ma
corrispondono ad una forte ed originale pulsione, che cronologicamente
dovrebbe precedere le acquaforti in causa. [8]
(fig. 1) La seconda parentesi vuole porre l’accento sul fatto
che il Piranesi ha esercitato veramente la pittura, infatti, non solo
i due biografi settecenteschi parlano di bambocciate e di nature morte
ma sono ormai documentate con certezza; [9]
riguardo alla scultura, più tardi, secondo il Legrand, avrebbe
lui stesso eseguito i modelli delle parti mancanti dei candelabri
e degli altri oggetti antichi passati nel suo studio per essere restaurati,
ricomposti e venduti. |
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fig. 1 |
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<8>
Ritorniamo al giovane artista, tanto generico quanto virtuale, la
cui decisione di andare a Roma è, certamente, causata da una
tipica occasione offerta dall’'Ancien Régime', quella,
cioè, di far parte del seguito di un grande personaggio (nel
caso specifico il nuovo ambasciatore della Repubblica presso la Santa
Sede), ma non è, sicuramente, la logica conclusione di un iter
educativo con precise finalità di perfezionamento. Si tratta,
piuttosto, di un’aspirazione letteraria, accesa dagli antichi
autori. Infatti, Legrand ci racconta che stava volentieri con il fratello
certosino, molto erudito di storia romana, e – traduco –
"si faceva leggere e spiegare i momenti principali di questa
storia, ne sognava di notte e fu preso da un violento desiderio di
viaggiare, di andare soprattutto a Roma per conoscere quei celebri
luoghi dove son accaduti tanti fatti alti, e di disegnare i monumenti
che ne furono testimoni”. Questa è una motivazione più
consona ad un Goethe che alle folle di artisti, che da più
di un secolo si recavano nell’Urbe (pur se anche per parte di
loro i resti dell’antichità potevano rappresentare l’oggetto
primario degli studi). Credo che questo sia un altro punto atto a
spiegare la singolarità del Piranesi. Legrand torna per ben
tre volte sulla sua passione per gli autori antichi: scrive che durante
il lavoro si faceva leggere Livio, Plutarco, Pausania, Plinio e Aulio
Gello, che mise in mano al primogenito Francesco, appena in grado
di leggere, libri di storia romana e, infine, che prossimo alla morte
rifiutò il medico e chiese, dicendo "non mi fido che di
lui”, di Tito Livio. [10] |
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La nozione piranesiana
di 'magnificenza' |
<9>
La parola-chiave della visione piranesiana dell’antichità
è 'magnificenza'. Già nella prima frase della giustamente
celebre 'Lettera' a Giobbe evoca 'quelle auguste reliquie, che restano
ancora dell’antica maestà, e magnificenza di Roma il
più perfetto che si abbia l’Architettura'. Da qui è
solo un passo verso il titolo della sua prima pubblicazione teorica,
'Della Magnificenza ed Architettura de’ Romani' del 1761. Ecco
la causa di "quel nobile desio che trasse sino dalle più
rimote parti d’Europa i più valenti Uomini dell’età
presente e delle passate”. La qualità dell’arte
romana si manifesta nella ”esattissima perfezione delle architettoniche
parti degli Edifizi”, nella "smisurata mole de’ marmi”
e in "quella vasta ampiezza di spazio, che una volta occupavano
i Circhi, i Fori, o gl’Imperiali Palagi”. Nelle didascalie
alle tavole della 'Prima Parte' del 1743 e delle posteriori aggiunte
la parola 'magnifico' torna di continuo: nel 'Ponte magnifico', il
'ampio magnifico Collegio' e il 'ampio magnifico Porto', scale son
classificate per ben tre volte come 'magnifiche'; il 'Gruppo di Scale
('loco magnifico di architettura' nella prima edizione) è 'ornato
di magnifica Architettura' e la 'Camera Sepolcrale' è "inventata
e disegnata conforme al costume e all’antica magnificenza degl’Imperatori
Romani”. Le invenzioni all’antica della 'Prima Parte'
devono evocare la 'magnificenza' di opere pubbliche, perché
– ancora dalla 'Lettera' – "di tali immagini mi hanno
riempiuto queste parlanti ruine”. Il passo piranesiano del 1743,
appena citato, ricorda Vitruvio, per cui le opere si giudicano per
tre qualità "id est fabrili subtilitate, et magnificentia
et dispositione” (De Architectura VI/8/9). Ed, inoltre, Tito
Livio attribuisce la "magnificentia publicorum operum”
già ai tempi dei re, la Cloaca massima e le sostruzioni del
Campidoglio, che eguagliano la magnificenza dell’Urbe dei giorni
suoi (De urbe condita I 56-57, VI 4). |
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<10>
Così Livio ha gettato le basi all’appassionata difesa
del primato dei Romani nello scritto piranesiano del 1761, ma tale
argomento già emerge in Scipione Maffei intorno al 1730 e,
soprattutto, nel "Ragionamento degl’Itali Primitivi (…)”.
Scipione Maffei, patrizio veronese, era uno dei massimi punti di riferimento
intellettuale di questa 'rete' veneta di cui parlavamo in relazione
al periodo di formazione del Piranesi. Egli riferisce, in particolar
modo, la 'magnificenza' ai primordi dei Romani, e agli Etruschi, attribuendo
a loro 'ferocia' e 'magnificenza' che sarebbero 'il forte dell’arte'
(e a queste avvicina perfino la 'varietà'). Le vede realizzate
nel sepolcro di Porsenna, poiché "eccessi così
fatti nelle strutture antiche furono d’ordinario per monumenti
à capi de’ popoli e à Re”. [11] |
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L’incisione
come documentazione archeologica |
<11>
Il tema del sepolcro – sia detto per inciso – già
si afferma nella 'Prima Parte' e sarà al centro dei quattro
libri delle 'Antichità Romane', dove il Piranesi gli consacra
i libri II e III. Maffei annuncia anche un’altra battaglia del
Piranesi, quella per la salvaguardia dei monumenti antichi, come quando
insorge contro il "lasciare all’arbitrio di chi che sia
il deformare con inconditi lavori chiese, strade e luoghi publici”
e chiede di ripristinare l’ufficio di un 'curator operum publicorum'
che vigilasse sulla conservazione delle antichità (I cinque
ordini (…) Sanmicheli, 1735). Piranesi, nella prefazione alle
'Antichità Romane' del 1756, si propone di "conservarli
col mezzo delle stampe”, perché vede "che gli avanzi
delle antiche fabriche di Roma (…) vengano a dimunuirsi di giorno
in giorno, o per l’ingiuria dei tempi, o per l’avirizia
de’ possessori, che con barbara licenza li vanno clandestinamente
atterrando, per vendere i frantumi all’uso degli edifizi moderni”
(e anche qui certi passi di autori antichi, come il Codice Teodosiano,
possono aver fornito una legittimazione supplementare). [12] |
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<12>
Prima, nella 'Lettera' del 1743, la stampa era già chiamata
a supplire all’esercizio dell’architettura, poiché
– cito – "altro partito non veggo restare a me, e
a qualsivoglia Architetto moderno, che spiegare con disegni le proprie
idee, e sottrarre in questo modo alla Scultura, e alla Pittura l’avvantaggio,
che come dicea il grande Juvarra, hanno in questa parte sopra l’Architettura,
e per sottrarla altresì dell’arbitrio (parola utilizzata
anche dal Maffei) di coloro, che i tesori posseggono, e che si fanno
creder di potere a loro talento disporre dalle operazioni della medesima”.
In discussione è, dunque, la magnificenza contemporanea, che
nell’età dell’Illuminismo e davanti alle crescenti
difficoltà economiche di stati come Venezia e Roma non poteva
passare indiscussa. Scrive il Muratori "gran magnificenza è
quella del duomo di Milano, di San Marco di Venezia, della Certosa
di Pavia, e d’altri edifizi de’ secoli rozzi, e ne stupisce
l’occhio del volgo”. [13]
Alvise IV Mocenigo, nella Relazione finale della sua ambasceria alla
corte papale del 28 novembre 1737, giudica che "Il pontificato
presente (quello di Clemente XII) influisce piuttosto le nobili intraprese,
e la magnificenza” – compresa la grande architettura –
piuttosto che il governo. [14] |
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<13>
Diverso è il punto di vista degli architetti e Vanvitelli ricorda
la 'gloriosa memoria' di Clemente XII, mentre qualifica come 'scadente'
il pontificato di Benedetto XIV. Non è da escludere che anche
le amare parole del Piranesi nella 'Lettera' sullo stato presente
dell’architettura e sull’assenza di veri mecenati rispecchi
il nuovo clima e le mutate priorità di papa Lambertini. Dall’altra
parte, come si è ripetutamente supposto, pare che a causa dei
suoi continui insuccessi nella ricerca di un impiego a Venezia, durante
i suoi ritorni, e a causa della burocratizzazione della professione
di architetto, l’artista abbia abbandonato definitivamente la
patria. |
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<14>
La 'magnificenza' si proietta in un lontano passato. Ma ciò
non esclude che anche le città attuali nelle serie di stampe
che si producono con crescente frequenza per un pubblico di ammiratori
europei riprendano questo concetto: nel 1741 escono le 'Magnificentiores
selectioresque Urbis Venetiarum prospectus' di Marieschi e dal 1747
le 'Magnificenze di Roma antica e moderna' di Vasi. |
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Piranesi e Giuseppe
Vasi |
<15>
Da poco sappiamo che non solo il Piranesi apprese l’essenziale
del mestiere di acquafortista dal maestro siciliano, ma che i due
artisti collaborarono a tal punto che per una prima serie delle 'Magnificenze',
poco diffusa e presto abbandonata, esistono 15 lastre firmate 'Vasi
e Piranesi'; e Piranesi stesso, dal 1750, riunì un primo gruppo
delle sue 'Vedute di Roma' sotto il titolo 'Le Magnificenze di Roma
le più rimarcabili consistenti in gran numero di stampe, nelle
quali vengono rappresentate le più cospicue Fabbriche di Roma
moderna (…)'. [15]
'Speculum Romanae Magnificentiae' era già il titolo dato da
Lafréry alla più importante serie di incisioni, con
le quali alla metà del Cinquecento si celebrò di nuovo
la Roma antica. Sotto il ritratto inciso del promotore di questa impresa,
Antonio Salamanca, si legge 'orbis et urbis antiquitatum imitator'
- quale più bella scritta si sarebbe potuta apporre al ritratto
che l’amico connazionale Polanzani nel 1750 incise di 'Jo. Bapt.
Piranesi Venet. Architectus'? |
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fig. 2 |
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<16>
Il ritratto apre le 'Opere Varie (fig. 2) di architetture prospettive
grotteschi antichità', nelle quali l’artista riunisce
le sue fatiche giovanili, le fantasie architettoniche della 'Prima
Parte' – aumentata di due tavole con grandissima ambizione la
'Pianta di ampio magnifico Collegio' e la 'Parte di ampio magnifico
Porto' – nonché i 'Capricci' e le 'Carceri'. Questa edizione
si colloca al punto di intersezione tra le affascinanti e per certi
aspetti sempre misteriose varietà e creatività dei primi
dieci anni della sua carriera e la più regolare e coerente
produzione dell’età matura con le prime 'Vedute' già
sul mercato e con le 'Antichità Romane', a cui stava iniziando
a porre mano. Inoltre nel 1747 aveva già pubblicato la più
leggiadra e, rispetto al mestiere di acquafortista, forse la sua più
attraente raccolta. Si tratta sempre di vedute ma solo di antichità,
le 'Antichità Romane de’ tempi della Repubblica e de’
primi Imperatori' ossia 'Vedute di archi trionfali, ed altri monumenti'.
Le opere giovanili, probabilmente, non godevano di un gran successo
al di fuori del ristretto circolo di iniziati. Sono le 'Vedute di
Roma' e le 'Antichità Romane' del 1756 a gettare le basi di
una florida situazione economica, della quale si vanterà in
una lettera alla sorella poco prima della morte, e a procurargli il
rispetto anche del Temanza e del Vanvitelli, che antecedentemente
lo aveva qualificato 'matto'. [16] |
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<17>
Il ritratto del Polanzani ci può servire come punto di partenza
per poter meglio progredire nella ricerca dei presupposti veneziani
del Piranesi, anche perché un ritratto così particolare
non può essere che inventato e, penso, anche disegnato da lui
stesso. Ci guarda dall’alto di una base con l’iscrizione
precitata, base che si suggerisce collocata in alto su un’architettura
non meglio definita, ma antichizzante. Si presenta come un busto all’antica
con il capo, però, inclinato e con un’espressione vivace
ed un forte realismo moderno, contornato da una specie di aura, circoscritta
da fogli di edera e nuvole. Anche il Tiepolo a Würzburg guarda
il visitatore dall’alto di un’architettura ma è
diverso e, soprattutto, posteriore alla stampa. Vedo, piuttosto, un
riscontro con un autoritratto del Piazzetta (fig. 3) nella posizione
simile della testa, che dona al rappresentato un’aria vagamente
spavalda e provocatoria (d’altronde tale posa fa parte di tutto
un repertorio del pittore, l’usa anche per un San Bartolomeo
in una serie di teste di apostoli); [17]
tale posa, in realtà, spiega solo in parte la complicata espressione
dell’incisore, che, però, Focillon vede semplicemente
come vivace e carica di forza e di ardore). [18] |
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fig. 3 |
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I prototipi architettonici
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<18>
Se in questo caso non si può escludere che Piranesi si sia
veramente ispirato alla tela del Piazzetta - pittore, ricordo, elencato
nelle biografie fra quelli studiati – in seguito vorrei insistere
non tanto sugli influssi specifici, quanto, piuttosto, far notare
sviluppi paralleli, indicare certe soluzioni formali, idee, immagini
che potrebbero avergli "riempiuto lo spirito” prima ancora
delle "parlanti ruine” (queste le parole della 'Lettera'). |
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<19>
Riprendiamo il filo della 'magnificenza' architettonica. Come il Maffei,
il padre Laugier – più importante come teorico dell’architettura
e come tale legato, per contrasto, all’ambiente veneziano del
Lodoli – nella sua 'Histoire de la République de Venise'
del 1755 la definisce come "reste brillant de la république
romaine”. Ed, infatti, in nessuna città italiana, inclusa
Roma, si poteva fare l’esperienza di una simile continuità
con l’idea del foro antico e della sua grandezza come a Piazza
San Marco (fig. 4) con gli attributi del foro cioè palazzo
del principe e tempio maggiore, uffici statali e erario-zecca, biblioteca
e prigione, il grande campanile e le piccole colonne come equivalenti
alle colonne trionfali e, perfino, i cavalli (che Canaletto in un
capriccio farà scendere dalla facciata della basilica sul suolo
della piazza). Il sistema architettonico delle due serliane sovrapposte
del 'Foro antico romano' della 'Prima Parte' – sebbene di articolazione
chiaramente bibienesca – si basa, in ultima analisi, sulla Libreria
sansoviniana e nel 'Campidoglio antico' contamina il foro con il Campidoglio
romano per creare una delle più vaste composizioni spaziali
di queste sue fantasie all’antica. [19] |
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fig. 4 |
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<20>
Un altro tema è l’architettura idraulica. Già
nella 'Lettera' del 1743 le uniche opere contemporanee degne di essere
menzionate sono il porto di Ancona e la fontana di Trevi e, in tutto
il suo percorso di encomiasta dell’architettura antica romana,
dedica un’attenzione particolare all’architettura idraulica,
dalla Cloaca Massima agli acquedotti ('Le rovine del Castello dell’Acqua
Giulia', 1761 e 'Descrizione e disegno dell’emissario del Lago
Albano', 1762). In questo campo dell’architettura Venezia godeva
di preminenza e poteva considerarsi legittima erede dei Romani e,
perfino, degli Etruschi, come scriveva il capo del servizio delle
acque della Repubblica Bernardo Zendrini nella 'Storia delle Acque
Venete'. L’ambiente del Magistrato alle Acque era stato, senz’altro,
decisivo nella formazione del Piranesi, se non altro per via dei maestri
Scalfarotto e Lucchesi e del compagno Temanza, Proti. [20] |
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<21>
Possiamo aggiungere dell’altro. Il primo disegno, forse, piranesiano
conosciuto rappresenta il Mausoleo di Teodorico a Ravenna (fig. 5).
[21] Poteva averlo
visto mentre era in viaggio per Roma nel 1740 o già –
se lo ammettiamo come molto giovanile – nel 1735 come ipotetico
accompagnatore di Scalfarotto e Temanza nella loro ricognizione del
Ponte (e anche dell’Arco) di Rimini. Nella 'Prima Parte' anche
questa tipologia è presente con il 'Mausoleo (o Sepolcro) antico',
che contamina, di nuovo, elementi diversi, dai sepolcri di Augusto
e di Adriano al tamburo borrominiano di S. Ivo alla Sapienza. |
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fig. 5 |
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<22>
La preparazione mentale del Piranesi alle magnificenze di Roma non
si limitava a siffatte letture ed immagini veneziane, ma si basava
anche sullo studio del Palladio, certamente, sul Palladio architetto,
fedele seguace degli antichi in quanto artefice di edifici, sull’autore
dei 'Quattro Libri' e di disegni d’antichità. Il Piranesi
racconta nella 'Lettera' delle "immagini" ritrovate reali
nelle "parlanti ruine" di Roma, "che di simili non
arrivai di potermene mai formare sopra i disegni, benché accuratissimi
che di queste stesse ha fatto l’immortale Palladio, che io pur
sempre mi teneva inanzi agli occhi". Di nuovo la fantasia precorritrice
e nutrita di parole oltrepassa la realtà dei nitidi rilievi
e delle ricostruzioni – come, inversamente, la grandiosa fantasia
piranesiana potrà, più tardi, causare la delusione dei
turisti di fronte ai monumenti reali. E’ infatti possibile che
Piranesi abbia conosciuto disegni palladiani di antichità,
dato il contemporaneo interesse dei circoli veneziani intorno all’edizione
del corpus palladiano, uscito nel ’40 ad opera di Francesco
Muttoni. Non si può, nemmeno, escludere che non conoscesse
l’assai rara pubblicazione delle 'Fabriche antiche' di Lord
Burlington (1730), che aveva portato in Inghilterra quanti disegni
aveva potuto. [22] |
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<23>
Ciò che Piranesi cercava e non trovava nel Palladio era la
maestà di mole e spazio, la ricchezza dell’ornamento
architettonico, e non essendo ancora maturo per vederlo e ravvisarlo
nelle stesse "parlanti ruine”, faceva esperienza di questi
splendori attraverso le immagini di fantasia di altri. E’ stato
ampiamente documentato quanto la 'Prima Parte' debba a Ferdinando
e Giuseppe Galli Bibiena, a Fischer von Erlach e al "grande Juvarra”
(come si esprime nella 'Lettera'). [23] |
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<24>
Non ha per noi grande importanza se il Piranesi abbia appreso gli
elementi della prospettiva – "necessaria all’architetto”,
come nella 'Lettera' citando Vitruvio – da un Carlo Zucchi,
autore di un trattato sul soggetto a Venezia o alla scuola dei Bibiena
a Bologna o dal Valeriani a Roma o, infine, da altri ancora. Infatti
le immagini scenografiche della 'Direzione à giovani studenti
dell’Architettura Civile' (1731-1732) di Ferdinando Bibiena
egli poteva averle studiate senz’altro a Venezia e le 'Architetture
e Prospettive' (1740) di Giuseppe Galli Bibiena, invece, a Roma. Da
Fischer ha copiato su due fogli motivi singoli certamente già
a Venezia, visti gli stretti legami esistenti fra i Proti del Magistrato
alle Acque ed il Marinoni, matematico di Corte a Vienna, ed i fratelli
Filippini ugualmente attivi a Vienna. [24]
Ed anche il padre della fantasia architettonica – descritta
ed incisa in legno –, il supposto veneziano autore della 'Hypnerotomachia
Poliphili', era studiato nell’ambiente del Piranesi dal Temanza.
[25] |
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<25>
Rimangono le immagini più suggestive e cioè le scene,
le fantasie e i capricci del 'grande Juvarra', che, in gran parte,
datano dagli anni romani, le scene per il cardinal Ottoboni degli
anni 1709-1713 e le ricostruzioni fantasiose del Campidoglio antico
del 1709. I disegni, il Juvarra li aveva portati con se a Torino,
ma alcuni saranno rimasti a Roma e, quando Piranesi arrivò
nell’Urbe, un quarto di secolo dopo la partenza del messinese,
potè, sicuramente, vederli (delle scene esistono, inoltre,
piccole incisioni). Lo Juvarra non si è mai staccato definitivamente
da quel mondo ideale romano e lo dimostra il fatto che ancora nel
1729 compose un album di capricci per Lord Burlington (Chatsworth)
e che nel 1730 ne fece un altro per l’Elettore di Sassonia,
re di Polonia (Dresda), in questi manipola con virtuosismo il repertorio
antiquario di oggetti architettonici romani – ma di questi,
evidentemente, il Piranesi non era a conoscenza. |
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<26>
Se i disegni dello Juvarra erano atti ad arricchire l’immaginario
per le "Prospettive inventate sulla maniera degli antichi Romani”
(così viene indicata la 'Prima Parte' nell’elenco delle
opere del 1757), non si devono, però, escludere anche altri
precisi riscontri. Infatti, per alcuni elementi e, particolarmente,
per quelli classici, l’artista si rivolge al Palladio: estende
l’idea del progetto palladiano per il ponte di Rialto fino a
farne, forse, la più bella tavola del nucleo originale della
'Prima Parte', il 'Ponte Magnifico' (fig. 6); elabora su Palazzo Chiericati
per il 'Regio Cortile' (oltre al progetto juvarriano di Palazzo Madama,
ai prospetti bibieneschi e alla cupola borrominiana); inventa in spirito
palladiano la 'Sala Corintia' con abside di basilica ed il 'Tempio
antico' (ossia 'Vestibolo d’antico Tempio') ha, almeno, certe
assonanze con San Giorgio (oltre ad una vasta ascendenza dai Bibiena
in su). Il 'Atrio Dorico', infine, con portico colonnato parallelo
e trasparente, deriva dal Palladio e passa in eredità a tutta
la pittura veneziana dal Veronese a Marco Ricci (disegni di Windsor).
Il Piranesi, però, dopo la prima edizione lo elimina dalla
raccolta sostituendolo con lo spazialmente più ricco e juvarriano
"Tempio antico (…) della Dea Vesta”. |
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fig. 6 |
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<27>
L’antichità come ideale lega il Piranesi al Palladio
e al filone classico, neo-palladiano della Venezia contemporanea,
agli architetti del Magistrato alle Acque Tirali, Scalfarotto, Lucchesi
e Temanza. E’ stata, però, osservata l’esistenza
di legami ugualmente forti, personali ed artistici, con il filone
barocco che da Longhena arriva a Gaspari e a Rossi. [26]
Aggiungerei Alessandro Tremignon, padrino della sorella maggiore del
Piranesi e nel 1688 autore della facciata di San Moisè (fig.
7), chiesa nella quale il Piranesi fu battezzato. Non esiste altra
facciata di chiesa che sia, come questa, così tappezzata di
rilievi ed inserti di notevole indipendenza (più della contemporanea
S. Maria del Giglio, dove non intaccano in ugual modo l’ordine
stabilito dalle colonne). |
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fig. 7 |
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<28>
Ancora immagini e ricordi che, forse, lo predisposero alla decorazione
urbana della piazza sull’Aventino e alla deriva anticlassica
delle tavole e delle vignette sul 'Parere' nonché dei 'Camini
(…)' del 1769. Anche Longhena stesso aveva dato un notevole
esempio di anticlassicismo e di un prepotente affermarsi di forme
plastiche con la facciata della chiesetta dell’Ospedaletto (fig.
8); vanno a tal proposito osservati soprattutto i capitelli a dado,
puntati o con maschera di leone – di nuovo in confronto con
il 'Parere' del 1776 (fig. 9) ed i 'Camini (…)'; la dirompente
plasticità anche dei monumenti sepolcrali come per esempio
proprio in San Moisè quello Ivanovich. |
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fig. 8 fig.9 |
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<29>
Tali affermazioni di anticlassico non sono, però, nuove nell’architettura
veneta. Antenato nobile di questo atteggiamento è il Sanmicheli,
che era ben presente nelle discussioni settecentesche accanto al Palladio.
Nel piranesiano taccuino A della Biblioteca Estense i due nomi appaiono
insieme come modelli [27]
e, se molto più tardi, il Selva, allievo del Temanza affianca
Sanmicheli 'più vario' al Palladio 'più puro', forse,
questo accoppiamento ha radici più antiche. [28]
Il Sanmicheli è, comunque, apprezzato come specialista degli
ordini architettonici, e questo è dimostrato dal fatto che,
nel 1735, il Conte Pompei pubblica un’edizione della sua opera,
subito recensita dal Maffei e, nel 1769, il console Smith, grande
animatore culturale, incarica un altro veronese, Luigi Trezza, di
eseguire rilievi degli edifici sanmicheliani. |
|
<30>
A Piranesi nel Sanmicheli doveva interessare l’uso e la varietà
del bugnato, le stratificazioni alle porte cittadine, l’accostamento
di forme diverse fortemente caratterizzate come in palazzo Bevilacqua
(fig. 10) e, soprattutto, nell’originalissimo composito insieme
del monumento Contarini al Santo. Quel sentimento manieristico della
sovrapposizione, giustapposizione e interpenetrazione di forme si
incontra ugualmente all’esterno della grotta di Villa Barbaro
a Maser, attribuita a Vittoria. Bisogna insistere sul fatto che questo
tipo di manierismo è del tutto estraneo a Roma, ma è
importantissimo per il tardo Piranesi. |
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fig. 10 |
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<31>
Già la varietà di superficie dei fusti di colonne del
Sanmicheli, come le scanalature a spirale di Palazzo Bevilacqua ed
il sorprendente interesse del Palladio per le basi antiche riccamente
ornamentate potevano preparare il Piranesi alla straordinaria decorazione
di tutte la parti degli ordini architettonici che scoprirà
a Roma e dei quali farà il suo cavallo di battaglia contro
la preminenza dei Greci nella 'Magnificenza ed Architettura de’
Romani'. Spingendomi verso oggetti più complessi, vorrei dare
una ascendenza veneta anche al Piranesi dell’ultimo periodo,
inventore di oggetti scultorei decorativi, di 'pastiches' dell’antico
e cioè ai candelabri prodotti nel suo studio – uno magnifico,
oggi al Louvre (fig. 11), sarebbe dovuto stare al suo sepolcro –
e riprodotti nei 'Vasi, candelabri, cippi, sarcofagi, tripodi, lucerne,
ed ornamenti antichi…' del ’78. Gli autentici candelabri
antichi, ad esempio quelli grandi della Galleria dei candelabri del
Museo Pio-Clementino provenienti da S. Agnese, non sfoggiano una simile
diversità di forme sovrapposte, una tale spiritosa stranezza.
Qualità che si incontrano, piuttosto, in un gruppo veneto che
ha il suo modello nel candelabro pasquale di Andrea Riccio nel Santo,
e trova la sua continuazione in quelli di Roccatagliata a San Giorgio,
di Vittoria già nella Cappella del Rosario della chiesa dei
SS. Giovanni e Paolo (Museo Correr), e di Andrea Bresciano a S. Maria
della Salute, e nelle basi delle 'antenne' di piazza San Marco. [29] |
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fig. 11 |
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<32>
Un ultimo ritorno alla 'Prima Parte': l’annuncia, nel 1754,
Patte nel 'Journal de Trevoux' nei seguenti termini: "Ces perspectives
sont un tableau fidel de (ce que) l’Architecture antique…a
eu de plus noble et de plus magnifique. Piranese a prétendu
donner par là des grandes idées, faire naitre de belles
conceptions (…)”. Nella prima edizione le stampe erano
sprovviste di quelle lunghe didascalie che danno tutti i riferimenti
all’antichità. Un indice, invece, alla copia della Biblioteca
Corsiniana – importante approdo per il giovane antiquario Piranesi
– designa i soggetti con brevi nomi di forte assonanza teatrale
come 'Galleria di statue', 'Loco magnifico d’Architettura',
'Cortile circondato da Portici' e 'Parte anteriore di Carcere'. [30]
In fondo, il grande melodramma barocco per cui si creavano le splendide
scene altro non era che un’altra evocazione dell’eroico
mondo antico. |
|
<33>
Vorrei insistere sulla prigione, chiamata nella seconda edizione 'Carcere
oscura' (fig. 12) e che come tema – e non nella soluzione formale
– annuncia le 'Invenzioni capricciose di carceri' di un lustro
dopo, e queste, nel 1761, a loro volta diventeranno 'Carceri d’invenzione'.
Rappresentando la prigione un passaggio obbligato nel percorso di
molti eroi del melodramma, nella ricerca dei precedenti del Piranesi
ci si è rivolto verso i disegni dei Bibiena, dello Juvarra
e del Vanvitelli. Non si è dato – a mio avviso –
abbastanza peso al Marieschi (fig. 13), anche lui scenografo, il primo,
però, a considerare seriamente il tema architettonico; su tale
tema, infatti, sfornò una lunga serie di tele, probabilmente
tra il 1735 e il 1742, anno della sua morte. [31]
Queste hanno in comune con il Piranesi l’ambiguità di
certi ambienti tra carcere, cortile e sotterraneo di palazzo, cioè
un aspetto primordiale e rozzo, pesante e disadorno dell’architettura
romana; questo aspetto è, certamente, in linea con il crescente
coinvolgimento piranesiano con le origini etrusche ed arcaiche e,
probabilmente, include anche la celebrazione della severa legge come
fondamento della grandezza romana: tema non più veneziano,
ma romano e che fungerebbe da fondo ideologico alle inaudite fantasie
delle 'Carceri'. [32] |
|
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fig. 12 fig.
13 |
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Riferimenti al
vedutismo veneziano |
<34>
La seconda metà degli anni trenta e la prima degli anni quaranta
sono così fertili di iniziative parallele tra Venezia e Roma
che non si può non domandarsi il perché. Per il momento,
però, risulta assai difficile nella maggioranza dei casi andare
oltre la semplice constatazione. Michele Marieschi nel 1741 fa uscire
le acqueforti delle 'Magnificentiores Selectioresque Urbis Venetiarum
Prospectus', nel 1742 Antonio Visentini i 'Prospectus Magni Canalis
Venetiarum (…)' ripreso alle tele del Canaletto in possesso
del console Smith (una edizione minore data già al 1735). A
Roma Vasi lavora alle sue vedute, che presentate come raccolta, prenderanno
dal 1747 il nome delle 'Magnificenze di Roma'; agli inizi dell’opera
Piranesi – come abbiamo visto – lo affianca, ma, almeno
dal 1744, produce sue proprie vedutine, che nel 1745 formano il nucleo
più importante delle 'Varie Vedute di Roma antica e moderna
disegnate e intagliate da celebri autori' edite dal libraio Amadei.
Nel 1742 il giovane Bellotto si reca a Roma per dipingere delle vedute
con i principali motivi dell’Urbe, le completa dopo il ritorno
a Venezia e, probabilmente sulla base dei disegni del nipote e sui
propri appunti di vent’anni prima, anche Canaletto riprende
questi soggetti (tutti e due accompagnano le vedute reali con altre
ideate). Vorrei a questo punto proporre due confronti, forse superficiali,
probabili convergenze piuttosto che influssi, il primo tra le vedute
canalettiane del Canal Grande (fig. 14) e una delle vedutine piranesiane,
quella dell’Ospedale S. Spirito a Roma (fig. 15), e far notare
che una simile lunga prospettiva leggermente ricurva di strada risulta
avulsa dall’oeuvre piranesiano e non si tratta, nemmeno, di
un motivo obligato; il secondo tra l’accentuazione chiaroscurale
di una parete neutra ad esempio nella vista del Canal Grande da Campo
S. Vio del Canaletto (rinforzata nella stampa visentiniana) e esempi
più frequenti di un simile effetto nel Piranesi. [33]
Medesime considerazioni valgono anche per il capriccio architettonico:
contemporaneamente alla 'Prima Parte', Canaletto dipinge per Smith
le sovrapporte con motivi palladiani, tra cui una con il ponte di
Rialto, e, poco dopo, per l’Algarotti un grande capriccio, che
riunisce in un solo luogo intorno al ponte i maggiori edifici del
Palladio. Inoltre Visentini, agli inizi degli anni quaranta, dipinge
la serie dei capricci per Palazzo Contarini. Benchè, questi
siano di uno spirito diametralmente opposto al Piranesi, manipolazioni
di monumenti esistenti gli uni, leggeri e spiccatamente moderni gli
altri, si deve riflettere su questa coincidenza. [34] |
|
|
fig. 14 fig.
15 |
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<35>
Contemporanee sono anche le due maggiori piante di città, che
esibiscono una nuova precisione geometrica, la prima del Fossati,
uscita nel 1743 e la seconda, di ben maggior impegno, del Nolli (fig.
16) uscita dopo lunghi preparativi nel 1748. A questa il Piranesi
ha contribuito dopo una collaborazione alla 'Pianta del Corso del
Tevere', nonché alla pianta archeologica dell’Urbe, mai
pubblicata, ma in cui era profondamente coinvolto. [35] |
|
|
fig. 16 |
|
Piranesi romanizzato |
<36>
A questo punto dovrei ancora menzionare, senza entrare nei particolari
della discussione storiografica, alcune cose su quanto Venezia può
aver contribuito all’arte del Piranesi. Si ritrova la costruzione
di spazi dinamici ed in diagonale, con forti contrasti direzionali,
prefigurata in Tintoretto: cito "il manipolare la prospettiva
in funzione psicologica”, il "modo allucinante di foggiare
piani prospettici non naturalistici”, il "giganteggiare
dei primi piani”, infine il ”anti-prospetticismo”
– che si ritrovano soprattutto nelle 'Carceri'. [36] |
|
<37>
Durante il suo secondo ritorno a Venezia, durato due anni (1745-47),
il Nostro si immerge nell’arte contemporanea della sua città
e non dovrebbero esserci dubbi su suoi contatti con il Tiepolo. Abbiamo
già parlato del suo rapporto con il Piazzetta, il Canaletto
e il Marieschi e, non bisogna dimenticare Marco Ricci benchè,
all’epoca, già morto da quindici anni (fra parentesi
vorrei ricordare che lo Juvarra gli ha dedicato una tomba allegorica
disegnata, ed inversamente il Maffei, pochi anni dopo, dedicherà
un elogio allo Juvarra). Per evocare questo ritardato apprendistato
veneziano – si è detto, non senza ragione, che solo allora
Piranesi sia diventato un artista veneziano [37]–
ma, anche alcune esperienze precedenti, sono sufficienti pochi rapidi
confronti. |
|
<38>
Da una parte troviamo il modo rapido, con tratti sicuri, di avvistare
un edificio in prospettiva, che ricorda i disegni del Canaletto. [38]
Dall’altra il disegno acquerellato, elittico e, soprattutto,
luminoso ed atmosferico per targhe, frontespizi, oggetti decorativi
e capriccio che è tipicamente tiepolesco, dove di veneziano
non c’è solo la presentazione, lo stile ma anche l’invenzione
decorativa – targhe, gondole ecc. – di gusto rococo di
questo periodo. La bella luce veneziana nell’arte del Piranesi
dura poco, ma lascia le sue tracce nelle 'Vedute di Roma'. C’è,
inoltre, una nuova libertà e raffinatezza, una maniera più
sciolta nella sua attività di acquafortista, cose che gli vengono
dal Ricci e dal Tiepolo e si manifestano, dopo il ritorno a Roma,
nei 'Grotteschi', in alcune tavole aggiunte alla 'Prima Parte' ('Vestiggi
d’antichi Edifici', 'Ruine di Sepolcro antico' e 'Ara antica'),
nella serie di 'Alcune vedute di Archi Trionfali' e le 'Invenzioni
capricciose di Carceri'. Anche qui le nuove qualità tecniche
del disegno e dell’incisione vanno di pari passo con i contenuti,
e cioè una più intensa poesia viene infusa in quel mondo
di rovine e frammenti scultorei, di vegetazione e putrefazione, scheletri
e teschi, maghi e serpenti; un altro immediato riscontro con Marco
Ricci ed il Tiepolo, i cui 'Scherzi' erano, forse, ancora in lavorazione
al momento del soggiorno del Piranesi. Non si devono, però,
dimenticare altre fonti, più lontane ma, a volte, più
pertinenti nella grafica secentesca e cioè il genovese Castiglione,
il napoletano Salvatore Rosa ed i lorenesi Bellange e Callot. [39] |
|
<39>
Dopo il massimo avvicinamento all’arte veneziana nei due anni
che seguono il soggiorno, alla fine degli anni quaranta, a Venezia,
Piranesi se ne allontana di nuovo. Rimangono vive certe immagini e
idee, che, però, hanno la loro fonte in esperienze, in genere,
anteriori. Tra queste, infine, non deve mancare un accenno agli insegnamenti
del Lodoli, maturati lentamente nella mente del Piranesi. Nel contraddittorio
sviluppo delle sue teorie, infatti, ad un certo momento poteva servirgli
la critica lodoliana degli ordini architettonici, con i quali –
secondo Piranesi – i Greci avrebbero corrotto l’architettura
alle radici ed a questo i Romani avrebbero posto rimedio attraverso
la massima libertà d’invenzione. Su un versante opposto
si è messo, recentemente, in relazione il principio lodoliano
della verità – in questo caso quella dei materiali –
con l’esacerbare il contrasto tra pietra e legno nelle 'Carceri'.
[40] |
|
<40>
Questa lunga disamina sarebbe incompleta se non accennassimo al fatto
che il Piranesi ha ovviamente approfittato a Roma dell’aiuto
dei connazionali; l’alloggio a Palazzo Venezia e i conseguenti
contatti quando era nel seguito dell’ambasciatore Venier, il
sostegno del cardinale Querini e dell’antiquario Bianchini,
la probabile raccomandazione del Filippini per ottenere l’impiego
presso il Nolli, [41]
i favori di papa Rezzonico. Sebbene la sua opera massima, il completamento
del rinnovo borrominiano della basilica lateranense, rimanga un miraggio,
deve al nipote Gran Priore la sola occasione, offertagli dall’Ordine
di Malta, di esercitare veramente la professione di architetto e,
all’altro nipote, Senatore di Roma la possibilità di
decorare l’appartamento d’ufficio in Campidoglio ed, infine,
al papa stesso il frequente acquisto di opere cartacee per i doni
diplomatici e la nomina a cavaliere dello Speron d’Oro. [42] |
|
<41>
Ormai è lontanissimo da Venezia, divenuta una roccaforte del
purismo neoclassico in architettura. Venezia non l’onora. –
Piranesi che nel Taccuino A di Modena aveva scritto "uniformarsi”
a Palladio e Sanmicheli, e aveva inveito contro la "architettura
molle”, il "gusto barbaro” e il "cattivo gusto
del Borromini”, si era convertito al Borromini, celebrandolo
come grande genio e meritandosi la qualifica del Barry (lettera al
Burke) dei due "flowing out of the same cloacus”. Era,
quindi, divenuto "uno dei moderni architetti che vanno in cerca
di bazzecole e trastulli, per far comparsa spiritosa e vaga”,
uno che lavora "secondo il suo capriccio”, con "scarso
giudizio”: così lo definisce il Visentini nelle 'Osservazioni
sopra gli errori degli architetti' del 1771, con le quali, tra l’altro,
risponde alle 'Diverse maniere' piranesiane del 1769 [43]. |
|
<42>
Il Temanza, compagno di gioventù del nostro, consiglia, nel
1778, all’allievo Selva, in viaggio di studio per Roma, di contattare
il Piranesi e saputo della sua morte, chiede diverse informazioni,
ma a "codesti architetti romani” manda a dire "Noi
veneziani usciamo da una scuola che non ha soggezione di verun altra,
e nel proposito di architettura il nostro Palladio impone a tutti”.
[44] E’ di scarsa
consolazione il fatto che in altro veneziano emigrato, ancora più
lontano del Piranesi, Bellotto, nel 1769 per dipingere una serie di
vedute romane, che gli erano state commissionate dal re di Polonia,
trascrisse quasi letteralmente le relative stampe piranesiane delle
'Vedute Romane'. [45] |
|
<43>
Vorrei, però, chiudere con immagini di trionfo e di magnificenza.
Di questi, più di ogni altra categoria, ne sono intrisi i disegni
con fantasie architettoniche che accompagnano e prolungano la 'Prima
Parte' (ed anche le 'Carceri'). Sono immagini che celebrano la magnificenza
antica, assecondate da un arredo monumentale di colonne di tutti i
tipi – semplici, coclide e rostrali - di fontane, statue equestri
e no, monumenti sepolcrali, piramidi e sfere, bandiere e pennacchi
di fumo. Questo repertorio di oggetti è, già prima del
Piranesi, proprietà comune della scenografia e del capriccio
architettonico, ed è adoperato con particolare predilezione
dallo Juvarra. |
|
|
fig. 17 |
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<44>
Ma a Venezia ha, più che altrove, una sua realtà materiale.
Si sa che il Piranesi riprese dall’altar maggiore di San Giorgio
(Girolamo Campagna, 1592 circa, su invenzione del pittore Aliense)
l’idea della figura di Dio Padre che sovrasta trionfalmente
il globo, per usarla nell’altare di San Basilio di S. Maria
del Priorato (fig. 17). Ed inoltre: sulla torretta della Dogana a
Mar (fig. 18) tale oggetto esce all’aperto, visibile da tutti
diventa uno dei segni dell’ambiente più carico di ideologia
politica, il bacino del San Marco: due atlanti sorreggono una sfera
dorata sulla quale si bilancia la Fortuna (opera di Bernardo Falcone
che, si dice che l’avrebbe voluta più complessa). Lo
sguardo dal Molo può abbracciare un insieme che comprende anche
le colonne della Piazzetta, anch’esse simboli della repubblica
– questa vista sarà senz’altro rimasta impressa
nella mente del Piranesi. [46] |
|
|
fig. 18 |
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<45>
Questi esempi non sono isolati nell’arte veneta: dalla xilografia
di un monumento piramidale nella 'Hypnerotomachia' (si dice ispirata
dalla descrizione vitruviana della Torre dei Venti di Atene) alla
statuetta di Venere marina di Danese Cattaneo (Bargello) ed oltre
(per esempio la fontana della piazza di Fano); dall’altare di
San Giorgio a quello dei Gesuiti e di S. Marziale. Piranesi, contro
ogni evidenza archeologica, nel 'Trofeo o sia Magnifica Colonna Coclide…'
(1774) colloca la statua di Traiano in cima alla colonna su atlanti
e globo [47] e nel
1762, due anni prima dell’altare del Priorato (1764), pensò
di far sedere una statua della Fede su un globo a coronamento della
base Antonina in Piazza Montecitorio. [48] |
|
<46>
Una somma di tali sforzi immaginativi si trova in un gran disegno,
che era della Societé des Architectes, ed è, oggi, al
Louvre (fig. 19) insieme al suo pendant, la misteriosa lastra condannata
dalla Calcografia romana, battezzata dal Calvesi la 'Caduta di Fetonte',
scoperta negli anni sessanta. Di questi è stata data un’interpretazione,
a mio avviso convincente, in un articolo appena uscito. [49]
La prima rappresenterebbe il trionfo di Newton con un grande apparato
teatrale di spettatori e suonatori di trombe e l’arcobaleno
su cui scende la divinità, l’altra, invece, il naufragio
di tutti i tentativi precedenti al massimo scienziato del secolo di
spiegare l’universo. Le accompagnano e preparano alcuni disegni,
fra i quali almeno due si devono menzionare (al Museo di Boston e
alla National Gallery di Washington). [50] |
|
|
fig. 19 |
|
<47>
Se si accetta l’interpretazione proposta, in queste due opere
di Piranesi si troverebbero riunite, in modo esemplare, fantasia e
memoria poste al servizio di un ambizioso tema ideologico che accomunò
i circoli intellettuali più avanzati di Venezia e di Roma:
Smith, Poleni e Algarotti da un lato, Boscovich dall’altro.
Ancora una volta si possono ritrovare precedenti nell’arte veneziana:
il capriccio del Pittoni e dei fratelli Valeriani nella serie delle
'Tombeaux des Princes' McSwiny ed il disegno di Marco Ricci in onore
di Newton, tutti e due databili intorno al 1727. [51]
Si suppone che il progetto piranesiano fallì, perché
contrastato dalle autorità ecclesiastiche. Per la sua originalissima
integrazione di valori formali ed iconografici si può opporlo
– per terminare – alla visione accademica del trionfo
in due tele romane: il 'Trionfo di Venezia', dipinto dall’allora
giovane Pompeo Batoni (fig. 20) su commissione dello storiografo della
Repubblica e ambasciatore a Roma fino all’arrivo di Piranesi,
Marco Foscarini (Museo di Raleigh N.C.) e il 'Trionfo della Chiesa
Romana' del Panini (1757, coll. privata): gruppi di figure allegoriche
assai artificiosamente costruiti in primo piano, davanti ad uno sfondo
caratterizzante e cioè gli stereotipi vedutistici del Palazzo
Ducale/San Marco per Venezia e di San Pietro per Roma. [52] |
|
|
fig. 20 |
|
Note: |
[1]
|
Elena Bassi: Il Piranesi tra Venezia
e Roma, in: Nuove idee e nuova arte nel ‘700 italiano
(Atti del Convegno, Roma 1975), Roma 1977, 427-451; Alessandro
Bettagno (a cura di): Piranesi tra Venezia e l’Europa
(Atti del convegno, Venezia 1978), Firenze 1983. |
|
Lino Moretti: Nuovi documenti piranesiani, in:
Bettagno (a cura di): Piranesi tra Venezia e l'Europa, 127-154. |
[3] |
Myra Nan Rosenfeld: Newly discovered works by
Vasi and Piranesi; Mario Bevilacqua: Piranesi giovane: I percorsi
di formazione, in: Piranesi. Nuovi contributi (Convegno Roma
2001, Atti da pubblicare a cura dell’American Academy
in Rome). |
[4]
|
Ristampa in Grafica Grafica II/2 (1976), 127-35
e 137-62. |
[5]
|
Alessandro Bettagno (a cura di): Piranesi. Incisioni
– Rami – Legature – Architetture, Catalogo
della mostra Venezia 1978, 16-17; Nicola Ivanoff (a cura di):
Tommaso Temanza: Zibaldone, Venezia 1963, 50-51. |
[6]
|
Albert Giesecke: Giovanni Battista Piranesi,
Leipzig 1991, 11; Maurizio Calvesi / Augusta Monferini (a cura
di): Henry Focillon: Giovanni Battista Piranesi, Bologna 1967,
22 e 31 (1. ed., 1918). Dopo i due fondatori degli studi piranesiani
diventato 'comunis opinio', vedi per esempio: Lionello Puppi:
Appunti sulla educazione veneziana di Giambattista Piranesi,
in: Piranesi tra Venezia e l’Europa, 217-64, qui: 240-247.
|
[7]
|
Moretti: Nuovi documenti, 134. |
[8]
|
Come ultimo Bent Sørensen: Piranesi and
his Workshop: Piranesian Drawings, in: Piranesi: Nuovi contributi.
|
[9]
|
Bruno Contardi: Piranesi in Campidoglio, in:
Elisa Debenedetti (a cura di): Settecento disegnatore (Studi
sul Settecento romano 13), Roma 1997, 162-182. |
[10]
|
Topoi che s’incontrano già a proposito
di Rubens – pittore di storia. |
[11]
|
Citato da Ennio Concina: Storia, archeologia,
architettura dal Maffei a M. Lucchesi, in: Bettagno: Piranesi
tra Venezia e l’Europa, 361-76, qui: 367-368. |
[12]
|
Vedi la conferenza di Paolo Liverani: Reimpiego
senza ideologia. La letteratura antica degli 'spolia', dall’Arco
di Costantino all’età carolingia (DAI, Roma, 19
aprile 2001, di prossima pubblicazione). |
[13] |
Citato in Salvatore Battaglia: Grande Dizionario
della Lingua Italiana IX, Torino 1975 (ad vocem). |
[14] |
Leopold von Ranke: Die römischen Päpste,
Leipzig 1883, III, 220. Il concetto ha ugualmente un posto suo
nella contemporanea teoria francese, due esempi: Il Président
de Brosses oppone l’architettura francese a quella italiana
con le parole 'nous entendons incomparablement mieux la distribution,…
et les commoditez de l’intérieur; eux, la magnificence
et la grande manière du dehors (Lettres Familières,
a cura di Giuseppina Cafasso / Letizia Norci Cagiano de Azevedo,
Napoli 1991, II, 742-43); Jacques François Blondel nel
suo 'Cours d’Architecture” (vol. II) riserva un
capitolo a 'Des Monuments élevés pour la Magnificence',
parzialmente opposti agli 'Edifices érigées pour
l’utilité publique'. |
[15] |
Rosenfeld: Newly discovered works. Vedi anche:
Andrew Robison: Piranesi. Early Architectural Fantasies, Washington
1986, 11. |
[16] |
Pietro Biagi: Sull’incisione e sul Piranesi,
in: Discorsi letti nella I. R. Accademia di Belle Arti in Venezia
1820, 23-103, qui: 76, n. 11; Puppi: Appunti, 257; Cesare De
Seta: Luigi Vanvitelli e Giovanni Battista Piranesi. Un ipotesi
…, in: Bettagno (a cura di): Piranesi tra Venezia e l’Europa,
103-126. |
[17] |
George Knox: Giambattista Piazzetta, Oxford
1992: anteporta. |
[18] |
Calvesi / Monferini: Focillon, 86. |
[19] |
Manfredo Tafuri: Jacopo Sansovino e l’architettura
del ‘500 a Venezia, Padova 1969, 53-54. |
[20] |
Puppi: Appunti, 219-240; Concina: Storia, 373-374. |
[21] |
Alessandro Bettagno (a cura di): Piranesi. Disegni.
Catalogo della mostra, (Fondazione Giorgio Cini, 41), Venezia
1978, no. 1. |
[22] |
Puppi: Appunti, 242-247. |
[23] |
Johannes Erichsen: Eine Zeichnung zu Piranesis
'Prima Parte', in: Pantheon 34 (1976), 212-216; Jörg Garms:
Considération sur la Prima Parte, in: Georges Brunel
(a cura di): Piranèse et le Français (Atti del
Convegno Roma 1976), Roma 1978, 265-280; Robison: Early Architectural
Fantasies, 12-25. |
[24] |
Elena Bassi: Andrea Musalo, in: Bettagno (a
cura di): Piranesi tra Venezia e l’Europa, 59-73; Bevilacqua:
Piranesi giovane. |
[25] |
Maurizio Calvesi: Ideologia e riferimenti delle
'Carceri', in: Piranesi tra Venezia e l’Europa, 339-360;
Maurizio Calvesi: Le Carceri. Riscontro con i luoghi e le fonti,
in: Piranesi nei luoghi di Piranesi. Catalogo della mostra,
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[26] |
Bassi: Andrea Musalo, 59, 72; Bassi: Il Piranesi
tra Venezia e Roma. |
[27] |
Adriano Cavicchi / Silla Zamboni: Due 'taccuini'
inediti di Piranesi, in: Bettagno (a cura di): Piranesi tra
Venezia e l’Europa, 177-216, qui: 181, 192-193; Luigi
Ficacci: L’immagine al servizio della verità: considerazioni
sulla rappresentazione della Roma Moderna, in: Elisa Debenedetti
(a cura di): Giovanni Battista Piranesi. La raccolta di stampe
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in: Jörg Garms: Prima Parte di Architetture e Prospettive,
in: Bettagno: Piranesi. Incisioni, 16-24, qui: 20. |
[28] |
Stefano Lodi: Studiare Sanmicheli nel Settecento.
Lettere di Luigi Trezza a Tommaso Temanza, in: Archivio Veneto
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[29] |
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Mainz 1985, ni. 97-102; Leo Planiscig: Venezianische Bildhauer
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[30] |
Giesecke: Piranesi, 74; Carlo Bertelli: Le parlanti
rovine, in: Grafica Grafica II/2 (1976), 90-116, qui: 90; Bettagno:
Piranesi. Incisioni, 29-30. |
[31] |
Federico Montecuccoli degli Erri / Filippo Pedrocco:
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[32] |
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delle Carceri, in: Piranesi nei luoghi, 17-22. |
[33] |
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2. ed., Oxford 1989, per esempio: figg. 205, 217, 233, 241,
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vedute di Roma di Giambattista Piranesi, Milano 1985, no. XX. |
[34] |
Dario Succi (a cura di): Canaletto & Visentini.
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[35] |
Bevilacqua: Piranesi giovane. |
[36] |
Paolo Marconi: Ricerca sulle fonti della cultura
d’immagine piranesiana: la scala gigantesca e l’ornato
allegorico degli anni ’60, in: Piranèse et les
Français, 315-326; Maurizio Calvesi. Le Carceri, Schede,
in: Piranesi nei luoghi, 9-13, qui: 11. |
[37] |
Alessandro Bettagno: Incontro veneziano: Piranesi
e Tiepolo, in: Bettagno (a cura di): Piranesi tra Venezia e
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[38] |
Ficacci: L’immagine, 72. |
[39] |
Bertelli: Le parlanti rovine, 95; Robison: Early
architectural fantasies, 25-39. |
[40] |
Gianpaolo Consoli: Architettura e storia: Vico,
Lodoli, Piranesi, in: Piranesi. Nuovi contributi. |
[41] |
Bevilacqua: Piranesi giovane. |
[42] |
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in: Giovanni Battista Piranesi. La raccolta, 47-56; Contardi:
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76, n. 11. |
[43] |
Citato da Bassi: Piranesi tra Venezia e Roma,
443. |
[44] |
Bassi: Piranesi tra Venezia e Roma, 444; Puppi:
Appunti, 220-224. |
[45] |
Stefan Kozakiewicz: Bernardo Bellotto, Recklinghausen
1972, ni. 388-398. |
[46] |
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Lazzari: Notizie di Giuseppe Brenzoni, Venezia 1840, 25; Planiscig:
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[47] |
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of Piranesi, in: Bettagno (a cura di): Piranesi tra Venezia
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[48] |
Bent Sørensen: An unpublished project
by Piranesi for Clement XIII, in: The Burlington Magazine 140
(2000), 497-501. |
[49] |
Bent Sørensen: The apotheosis of Sir
Isaac Newton by Piranesi, in: Apollo march 2001, 26-34. |
[50] |
Robison: Early Architectural Fantasies, 34.
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[51] |
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Notes sur l’architecture révolutionnaire du XVIIIe
siècle et ses sources italiennes, in: Gazette des Beaux-Arts
113 (1971), 201-238, qui: 221- 223. |
[52] |
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Oxford 1985, no. 13, fig. 16; Michael Kiene: Redende Capricci
von Giovanni Paolo Pannini, in: Zeitschrift für Kunstgeschichte
57 (1994), 440-445; Ferdinando Arisi: Gian Paolo Panini, 2.
ed., Roma 1986, ni. 476-477. |
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Autore |
Prof. Dr. Jörg Garms
Neulinggasse 26/3
1030 Wien
Österreich
j_und_egarms@hotmail.com
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Empfohlene
Zitierweise:
Jörg Garms: Piranesi da Venezia a Roma, in: zeitenblicke
2 (2003), Nr. 3 [10.12.2003], URL: <http://www.zeitenblicke.historicum.net/2003/03/garms.html>
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